Come vanno le cose...


Così vanno le cose, così devono andare

Pubblicato da comitatonogelmini su 1 novembre 2011

di Andrea Bagni
da Facebook
1 novembre 2011

Sarà perché vivo a Firenze, ma mi colpisce molto l’attuale dibattito fra giovani rottamatori e vecchi dinosauri. C’è qualcosa che non torna. Chiaro che esiste un disastro della condizione giovanile. La grande donna nuda di Altan dice, Il futuro non lo voglio più, portatemi il conto e basta. C’è anche il problema di una classe dirigente che in Italia è gerontocratica o genealogica, nepotista. Ma nella brillante battaglia di uno come Matteo Renzi si afferma una strana categoria di giovane. Categoria anagrafica, assoluta. Vagamente dannunziana. I giovani sono spavaldi e brillanti, pronti alla battuta sferzante. Assomigliano anche a quelli della pubblicità dei telefonini o delle merendine, vivaci e dinamici. Fanno squadra e si danno il cinque. Versione politica dei vecchi boy scout. Politica? Può esistere la categoria politica dei giovani, come fossero tutti uniformati dalle carte di identità? Come tutti e tutte leggessero la società italiana nello stesso modo, con le stesse categorie, con gli stessi progetti di trasformazione… A uno come Renzi appaiono probabilmente così, ma perché non ci sono proprio per lui progetti di trasformazione. Sono fuori discussione, sono politica. Nella sua cultura c’è un misto di accettazione e accelerazione dell’esistente. Una cosa tipo, Basta discussioni, ora tocca a noi. Non ci interessano i diritti, quelli valgono per la società fondata sui legami sociali. Non vogliamo diritti collettivi, vogliamo possibilità individuali. In questo senso Renzi è il perfetto prodotto dei vent’anni berlusconiani, la loro grammatica antropologica. Più estraneo alla costituzione di Berlusconi. Berlusconi vorrebbe farla fuori, lui è già fuori. Lo nacque.

Anni fa nel consiglio di istituto della mia scuola i quattro giovani studenti erano buffi e simpatici. Due erano della mia classe peraltro. Ripetenti di quinta, uscivano dall’aula proprio quando suonava la fine dell’intervallo, se gli dicevi che non era esattamente quello il sistema ti rispondevano sorridendo che prima al bar c’era troppa gente, via professore… Dei veri esperti della vita scolastica.

Nel consiglio si discuteva del fatto che il gestore del bar, una volta avuta la conferma dell’appalto, aveva via via ridotto il contenuto dei panini e delle schiacciatine. Meno prosciutto meno fontina meno mortadella eccetera. La proposta era di fare dei controlli ogni tanto per verificare che non facesse troppo il furbo. Pensavo avessero fatto gli studenti la richiesta e fossero comunque i primi ad essere d’accordo. Ma i giovani dissero che bisognava capire. Lui era un imprenditore, faceva il suo mestiere, non si poteva pretendere che non curasse i suoi interessi. Ma il mestiere dei consumatori non era quello di non farsi fregare? Per loro no. Studiavano economia in fondo. Loro capivano. Così va il mondo. Al suo posto che avrebbero fatto? Nel giornalino di scuola una ragazza aveva scritto – in una doppia pagina pre-elettorale, una a favore una contro Berlusconi – Dicono che al governo ha curato solo i suoi interessi, forse è vero ma pensiamoci: chi di noi al suo posto, avendone la possibilità, non avrebbe fatto lo stesso?

A ripensarci ora, mi sembrano esponenti di un renzismo antelitteram. Si dice continuamente che non ci sono più sinistra e destra, Berlusconi può effettivamente affermare che le sue ricette sui licenziamenti facili le prende dal Pd di Ichino: non è solo astuto, è anche inconfutabile. Sulla letterina della Bce o sulla Tav in Val di Susa, sulle grandi opere e sulla autorità trascendente del Pil, non ci sono differenze di appartenenza politica. Tutto va fatto e basta. E però a me pare che i punti di vista, per quanto intrecciati nei partiti, restino abbastanza netti sulle schiacciatine e i panini. Cioè sulla vita profonda. Se il bar della scuola l’accetti perché così va il mondo, perché è sacrosanto diritto di ognuno fare i propri interessi, questa è una politica. E quando dice Renzi di stare con Marchionne senza se e senza ma, perché se no la Fiat se ne va, dimostra di essere un possibile leader del pensiero conservatore. Certo loro la chiamano modernità e dicono che è di sinistra. Perché è vero che non si cambia nulla “di come va il mondo”. Cosa fare alla Fiat lo decide l’Amministratore delegato, se dice o così o disoccupati, decidete liberamente, vuol dire che bisogna decidere liberamente se accettare o suicidarsi. Così stanno le cose, così devono andare. Ma conta che il meccanismo del comando, solido nelle mani degli stessi, sia fluido, dinamico, “democratico”. Che si possa scalare la vetta, secondo i propri meriti. La meritocrazia in fondo è la cosa di sinistra di un potere che resta gerarchico e autoritario. Non si tratta di essere riconosciuti e contribuire – si tratta di vincere. Non c’è alcuna dignità nel lavoro, quando sei in fabbrica sei un ingranaggio, d’altra parte un’azienda è un’azienda mica un istituto di beneficenza. Però c’è posto per te un pochino sopra se sei vispo e le organizzazioni sindacali non ti bloccano. Ed essere vispi è la qualità numero uno dei giovani. Di questi giovani.

Quello che mi pare più triste è che sparisce completamente dalla scena mainstream che l’Italia è piena anche di altre ragazze e ragazzi. A sentire la televisione si direbbe che fuori del palazzo della politica ci sia solo l’energia dei nuovi Blair o quella dei black bloc. Rottamare o fare rottami – sempre nel mondo delle merci muoversi. Come se fra i 27 milioni di votanti al referendum non ci fossero soprattutto giovani. Un mare di gente che ha fatto politica, costruito relazioni, dato volantini e organizzato banchini per la prima volta. Che spesso non aveva mai votato prima. Personalmente ho capito che si sarebbe vinto quando per una cena della quinta in una pizzeria che era un incredibile casino generale – musica karaoke ballo fra i tavoli – al microfono il tipo che cantava ha detto, Mi raccomando domenica tutti a votare. Ed è incredibilmente esplosa un’ovazione, in quel luogo di antipolitica giovanile.

Chi ha votato per l’acqua bene comune, per la gestione pubblica contro le privatizzazioni, che c’entra con Matteo Renzi? Con uno che vuole privatizzare i trasporti se gli autisti non stanno muti e rassegnati, che sostituisce i lavoratori in sciopero al Teatro Comunale con gente qualunque, che vuole aprire i negozi a tutte le ore, primo maggio compreso, perché tanto ci sono i lavoratori interinali che saranno contenti. Modernità è liberare il mercato dalle incrostazioni che frenano questo neo neoliberismo, eliminare le sacche di grasso, la ruggine di sindacati e partiti politici. Contano solo i comitati elettorali e le scenografie, che facciano da sostegno ai tipi brillanti che piacciono al pubblico. Giovani e maschi, possibilmente, perché la cultura femminile della cura della società e delle relazioni non è di questo mondo. Qui c’è posto solo per la squadra del leader. I suoi uomini.

Certo questo mito della Modernità ha una forza notevole, che non va trascurata. È una risposta all’altezza dei tempi, un’uscita da destra alla crisi di sistema, ma un’uscita. Non cade nel patetismo tipico di una certa sinistra, che pensa che non si possa fare altro da quello che chiedono i mercati – licenziamenti, tagli, riforma delle pensioni etc – ma ha il senso di colpa di quello che fa e mira a rendere più mite l’intervento distruttivo. Facciamolo ma che faccia meno male possibile. Con questi Renzi e company vanno a nozze. Almeno ci credono davvero fino in fondo, e a modo loro danno una speranza. La società gerarchica ma dinamica, la competizione individuale di tutti contro tutti, la privatizzazione dell’intera vita, rimetteranno in movimento la classe dirigente imbalsamata, che si aprirà alle nuove generazioni. L’uguaglianza, valore retorico dell’antico mondo, sostituita dalla competizione sociale.

E poi questa destra entusiasta mette efficacemente al centro non le “masse” ma i singoli. È vero che rinuncia a qualunque immaginazione alternativa della società: non c’è nessun altro mondo possibile, nessuna liberazione collettiva praticabile. Forse sottoscriverebbe la formula della Tatcher che non esiste la società ma solo gli individui (Renzi aggiungerebbe anche le famiglie e le squadre di calcio). Però vede bene che non si esaurisce la propria vita nelle appartenenze. Che non si può puntare tutto sulla identità dei soggetti collettivi nell’epoca della frammentazione sociale.

Questo diritto alla creatività, alla dimensione personale della propria esistenza, laddove si vive e lavora, mi sembra il territorio nuovo del conflitto politico. Forse ogni rivoluzione parte da una dimensione personale e soggettiva, e lì alla fine ritorna. La cultura dei beni comuni non è il comunismo delle masse o degli stati assoluti, casomai il tessuto collettivo da garantire perché si possa costruire il proprio percorso, dare il proprio contributo all’interno di una comunità aperta, politica – né etnica, né di competizione individualistica, né gerarchica. Un tessuto di legami e di vincoli che fanno crescere singolarmente all’interno di relazioni di cui avere cura collettiva.

In fondo si impara a scuola che non c’è creatività – né desiderio – senza la responsabilità delle relazioni e la misura del limite.

 





Articolo tratto da: Istruzione: bene comune - http://www.rknet.it/lascuolasiamonoi/
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